“Il  ricco e il povero”

Codex Aureus Epternacensis, manoscritto miniato; Parabola dell'uomo ricco e del mendicante Lazzaro
Codex Aureus Epternacensis, Parabola dell’uomo ricco e del mendicante Lazzaro, circa 1035-1040

Di seguito riportiamo, per chi volesse rileggere e approfondire, il testo della predicazione di domenica 25 settembre, preparata e pronunciata dal diacono che ha presieduto la liturgia della Parola, Stefano Gardoni.


letture di riferimento: Am 6,1.4-7, Sal 145, 1Tm 6,11-16, Lc 16,19-31.

Sono due le scene che compongono il quadro del racconto evangelico di oggi (cf Lc 16,19-31).

La prima scena riguarda la vita terrena dell’uomo ricco e Lazzaro (cf Lc 16, 19-21).

La seconda scena, invece, ritrae il ricco e Lazzaro, dopo la morte (cf Lc 16, 22-21).

Il ricco, in vita, ha ricevuto beni. Lazzaro, invece, ha ricevuto povertà e sofferenza. La situazione si capovolge con la morte di entrambi. Lazzaro, infatti, è consolato, mentre l’uomo ricco è nei tormenti (cf Lc 16,25).

Altri personaggi appaiono sullo sfondo del racconto. Sembrano personaggi non importanti.

Sono i cinque fratelli dell’uomo ricco, rimasti in vita. I cinque fratelli del racconto siamo noi.

Che cosa faranno quei cinque uomini?

Seguiranno l’esempio del ricco oppure faranno tesoro dell’insegnamento di Mosè e dei profeti? (cf Lc 16,29)

Luca non da risposta. Davanti a loro, si aprono due strade: quella della condivisione dei beni, con chi è nel bisogno, e quella del tenere tutto per se stessi.

Dinanzi a noi, si aprono le stesse due strade, ecco, perché dicevamo che quei cinque fratelli del racconto siamo noi, perché, anche noi, immersi nelle cose del mondo, in ogni istante, ci troviamo dinanzi  alla possibilità di seguire il ricco  oppure l’insegnamento di Gesù; in ogni istante, noi,  con i nostri beni terreni, possiamo costruire la nostra consolazione futura oppure i nostri tormenti futuri (cf Lc 16,25 ).

L’avido ha soltanto occhi per il tempo presente, che immagina lungo come secoli. Vorrebbe mettere l’eternità nel tempo, ma si rende conto che è impossibile.

Reagisce, allora, prescindendo da essa, afferrandosi sempre più saldamente alla roccia sabbiosa del presente.

L’avidità, si può affermare senza  ombra di dubbio, è una passione che si annida in ogni cuore umano. L’accumulare, il possedere di più, l’avere fame di beni e di mezzi, il vivere con maggiori comodità, non è estraneo a nessun mortale: cristiani o non cristiani, credenti o atei, sacerdoti, religiosi o laici.

Non che tutto ciò in se stesso sia peccato, ma quando la tendenza si trasforma in passione e la vita intera si calcola solo nell’accumulare, nell’avere, nel vivere comodamente, allora il peccato dell’avidità ti ha schiavizzato. In effetti, per l’avidità l’uomo pecca contro la povertà, perché il suo cuore, invece di essere posto in Dio, suo Bene supremo, si è prostrato davanti al Dio insaziabile ed effimero del denaro. Pecca contro la povertà, perché le sue ricchezze non gli servono per servire, ma per soddisfare una passione. Pecca contro il disegno di Dio, che ha dato a tutti i beni di questo mondo un destino universale. E ha lasciato agli uomini di ogni epoca e generazione il compito di portarlo a compimento. Non dovranno, molti di noi cristiani, realizzare una vera “conversione” alla povertà evangelica? Non dovremo liberarci da molti attaccamenti mondani e catene pecuniarie, che ci tolgono libertà per vivere l’autenticità del Vangelo?

Lazzaro giace, ancora oggi, alla nostra porta (cf Lc 16,20), mentre, noi, vestiti di porpora e di bisso, banchettiamo lautamente (cf Lc 16,19).

Quanta fatica fanno i nostri occhi, per guardare Lazzaro! Quanta fatica fanno le nostre mani, per aprirsi in un gesto sincero di solidarietà verso Lazzaro!

In un mondo, come il nostro, costruito, spesso, sulle mode e sulle apparenze, anche la solidarietà, talvolta, si incammina lungo le strade, senza mai incontrare Lazzaro.

Lazzaro giace sulla nostra porta, ma le mode ci fanno preferire la solidarietà a distanza, quella delle adozioni di bambini lontani, che, mai, incontreremo.

Le mode ci fanno preferire la solidarietà che viaggia sulle onde di un sms, una solidarietà che, mai, ci renderà davvero prossimi, a chi è nel bisogno (cf Lc 10,25-37).

Certo, solidarietà è anche questa: utile e preziosissima, ma Lazzaro e il suo sguardo ci interpellano dentro casa, mentre, noi non abbiamo il coraggio né la voglia di guardarlo.

Apriamo i nostri occhi! Lazzaro è dentro la nostra famiglia, dentro il nostro posto di lavoro, dentro la nostra comunità parrocchiale. Portano il suo nome i nostri anziani, i nostri ammalati, i nostri bambini, che, con troppa facilità, noi adulti, affidiamo alle cure della televisione o dei videogiochi, dimenticando che i bambini hanno bisogno della tenerezza e del tempo dei grandi.

Portano il nome di Lazzaro, i nostri famigliari e amici, i nostri colleghi di lavoro, i nostri vicini di Casa che vivono difficoltà economiche o drammi familiari, che noi ci limitiamo a compiangere senza, però, aiutare.

Le piaghe di Lazzaro – di tutti i Lazzaro della nostra società- sono quelle procurate dalla nostra indifferenza.

Quando riusciremo ad avere pietà del Lazzaro piagato, che giace sulla nostra porta, incontreremo il Cristo. E’ Cristo, quel Lazzaro che giace sulla porta dell’uomo ricco. E’ Cristo, ogni Lazzaro che giace sulla nostra porta.

Piaghe sul corpo di Lazzaro; piaghe sul corpo del Cristo, a dire che il Cristo è il vivente; che il Cristo è vivo tra noi, in una società ferita, tanto dall’indifferenza quanto dalla comoda e pigra solidarietà. Il Signore ridona la vista ai ciechi (Sal 145(146), 8). Signore, ridona la vista a noi, cristiani ciechi della domenica, solidali si, ma solo fino al punto da donare il superfluo e non la vita, quella che tu hai donato.

Amen.